Attualità e Cronaca Rosa

Anniversario Terremoto de L’Aquila: Due anni i fa trenta secondi che hanno distrutto tutto

06-04-2011

Anniversario Terremoto de L’Aquila: Due anni i fa trenta secondi che hanno distrutto tutto

L'Aquila. Dopo il terremoto

 

 

 

 

 

Chiudiamo gli occhi e proviamo ad immaginare: è notte fonda. E’ buio. C’è silenzio.

 

 

Quel silenzio tipico della notte nelle città. Un cane che abbaia, un antifurto che suona, una macchina che passa rapida, voci che si allontanano, quelle dei nottambuli che rientrano dopo una serata allegra.
Questo è il “nostro” silenzio notturno abituale.
Iniziamo ad inserire qualche modifica: Innanzitutto quella notte, quella di cui stiamo parlando, non si dormivano sonni tranquilli, non lì, non a L’Aquila: tutti quei rumori, che normalmente sarebbero rimasti ai margini del sogno,sono più reali.
Anzi, sarebbero stati più reali.Perchè L’Aquila, quella notte, non è una normale città che dorme, non è immersa in quel silenzio quasi irreale che quando scende trasforma ogni luogo.
L’Aquila è una città in allerta, una città che ha paura. Chi riesce a prendere sonno dorme con un occhio solo e con le scarpe ai piedi, pronto alla fuga. Ma non tutta la città dorme. Nel centro si è organizzata una “notte bianca”. Un pretesto per stare insieme, per sentirsi meno soli. Per avere meno paura.
Sempre con gli occhi chiusi proviamo ad immaginare, in questa notte, quella città e i paesi vicino.Paragoniamoli con quella che è la nostra concezione abituale di quelle ore: cani che abbaiano?Sicuramente, tanti, più del solito. Si sa, gli animali sentono quando sta per accadere qualcosa. Macchine?Certo, ma non camminano, sono ferme, parcheggiate; da alcune, però, provengono dei bisbigli:la gente ha deciso di dormirci dentro, è più sicuro.
Altri rumori? Tutti quelli di una città che sembra quasi aver lasciato delle sentinelle: uomini e donne che cercano di proteggere loro stessi, i loro cari e la loro vita. E poi fa freddo, fa tanto freddo. Un freddo che fa quasi rumore.
La notte si fa più scura, le voci si affievoliscono,l’ora, quella maledetta ora, si avvicina. Ed eccola.

 

 

3:32, la terra trema.
Forte, a lungo, così a lungo che sembra non finire mai, così forte che sembra che il pianeta intero si stia spaccando.
Il silenzio che quelle strade avevano guadagnato viene squarciato di nuovo, all’improvviso.
Noi non c’eravamo, possiamo solo immaginare le urla di paura, le voci che si chiamano, le famiglie, gli amici che si cercano.Ma non sempre si trovano.
Improvvisamente non ci sono punti di riferimento, fisici, mentali. Quel che c’era intorno non c’è più, solo polvere, macerie. Il fratello, il figlio, la sorella, l’amico che dormivano nel letto accanto non ci sono più, solo il silenzio quando viene chiamato il loro nome.
Chi può scappa, esce, in pigiama, con una giacca, una coperta sulle spalle e poco dopo si ritrova ad avere solo quel che ha indosso. Tutto il resto è rimasto lì, sepolto sotto le macerie dei palazzi crollati come castelli di carte, le loro gambe di cemento si sono piegate, hanno ceduto e tutto il corpo le ha seguite, chiudendosi in un egoistico e travolgente abbraccio che ha chiuso dentro di se la vita e la storia di tante, troppe persone.
Trenta secondi. Un lasso di tempo, secondo i canoni normali, brevissimo: uno spot pubblicitario, la durata di un fiammifero.
Eppure trenta secondi possono essere tantissimi: in una gara sportiva sono un tempo immenso, quando attendiamo qualcosa o qualcuno sembrano non passare mai.
Quando in questi trenta secondi, la durata della scossa di terremoto, il tuo mondo viene meno, sembrano ore.
Trenta secondi che hanno sconvolto l’esistenza di una città e dei suoi abitanti.Trenta secondi che si sono portati via oltre trecento persone. Trecento e più persone che avevano diritto a molto più dei loro ultimi trenta secondi.
Il resto è, ormai, storia. La corsa degli “addetti ai lavori” sul luogo del disastro, vigili del fuoco, volontari, civili, tecnici, autorità. Gli aiuti sinceri e le speculazioni, le promesse non mantenute e le proteste, le tendopoli e la sofferenza.
Sono passati due anni, 730 giorni. Quella che era una delle città più belle del nostro paese è stata praticamente rasa al suolo e nella testa di chi la viveva ancora ronzano tanti perchè. Non sul terremoto, quella è natura, che “Non è buona e non è cattiva ma è indifferente”(Giorgio Bocca:”Il Giorno”, 11 ottobre 1963-in riferimento alla tragedia del Vajont), i perchè degli Aquilani riguardano l’uomo, che poteva, doveva  fare qualcosa: prima più che dopo.
Ma”Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”(Primo Levi), allora facciamo in modo di non dimenticare, di ricordare, sempre, in modo che tutto questo, per quanto dall’uomo dipendente, non si ripeta, perchè anche questo, in qualche modo, potrà contribuire al sogno degli Aquilani:  che la loro città torni a volare e loro con lei.

Cosa ti piace?

cosa ne pensi?