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Mamma malata terminale: una sentenza le toglie i figli

13-06-2011

Mamma malata terminale: una sentenza le toglie i figli

Una notizia recentissima che viene dall’America, una nazione in cui tutto può accadere: anche l’assurdità che ad una giovane mamma le vengano tolti i figli perché malata di cancro. Purtroppo non è la trama di un film ma è una brutta storia che ha come teatro New York: Alina Giordano, una italo-americana di 36 anni, ha scoperto 3 anni fa di avere un tumore al seno (ormai in metastasi ossea) e da allora sta lottando contro questo male.

 

La stessa malattia ha provocato la fine del suo matrimonio con Kane Snyder, che evidentemente non era pronto ad affrontarla al suo fianco ma che ha preferito intentare contro di lei una battaglia giudiziaria per ottenere l’affidamento dei figli Sofia, di 11 anni, e Bud di 5. Giorni fa la sentenza, una sentenza che, a prescindere dai pronostici dettati dalla realtà lapalissiana vissuta dalla donna, ha visto come vincitore proprio il marito, a cui saranno affidati i figli dal prossimo 17 giugno, ma ancora più incomprensibile è che il giudice protagonista di un tale giudizio sia proprio una donna, Nancy Gordon.

 

Un percorso giudiziario fatto di testimonianze e approfondimenti tali da richiedere il parere di una psicologa esperta in psicologia giuridica, Helen Brantley, che ha così concluso la sua relazione peritale: «Il decorso della malattia è ignoto e quindi maggior contatto i figli hanno col genitore non malato, meglio sarà per loro. I bambini vogliono un’infanzia normale e questa non è possibile con un genitore malato». Tale sentenza ha creato un caso mediatico sia in America che ora in Europa. Dalle TV, alle Università ed ai social network, sono partiti appelli di denuncia contro questa ignobile conclusione che potrebbe portare ad un pessimo precedente considerato che offre il messaggio implicito che quindi solo chi gode di una buona salute può essere considerato un genitore idoneo.

 

La disperazione di questa giovane mamma può essere facilmente intuita dalle sue stesse parole:

 

«Sto lottando con tutte le mie forze perché non accada. Sia Sophia che Bud sono terrorizzati all’idea di lasciarmi, non vogliono stare con un padre che fino a oggi non è esistito. Per quale ragione un genitore malato non dovrebbe avere il diritto di vivere con i propri figli? Siccome un giorno potrei morire (ma chi non rischia di morire?!) non merito di vivere con Sophia e Bud. La cosa che mi sconvolge di più è il fatto che si tratta di un giudice donna, speravo che una madre potesse capire il mio dramma. Ho portato nove testimoni che hanno raccontato che mamma sono e le mie condizioni di salute, ma non è servito a nulla… Una madre malata rimane comunque una madre».

 

Molti esperti sono concordi nel dire che sotto gli 11 anni i bambini sono esposti ad un maggior rischio psicologico derivante da una malattia o dalla perdita di un genitore. Andando avanti con l’età il rischio è sempre presente, ma in forme diverse considerato che mina alla base la sicurezza necessaria per crescere: la presenza di mamma e il papà rappresenta infatti un punto fermo per eccellenza per un figlio. Il senso di protezione che può aver animato il giudice è comprensibile ma in queste situazioni il danno è maggiore poiché lo si allontana dalla verità, una verità con cui prima o poi si dovrà misurare.

 

E nel momento in cui la verità verrà a galla, si rischierà di alimentare nei bambini il senso di impotenza causato dalla costrizione ad allontanarsi dalla mamma in difficoltà ed i sensi di colpa nel non aver vissuto gli ultimi momenti con lei, momenti dolorosi ma comunque vissuti con la propria mamma. Tenere un bambino all’oscuro, proteggerlo, allontanarlo può evitargli una situazione difficile ma gli verrà portata via anche una seconda cosa: il suo dolore, gli ultimi momenti in cui potrà abbracciare la mamma, la sua disperazione e tutte le emozioni che si presenteranno.

 

Per superare un dolore, è necessario viverlo fino in fondo. Sarà sicuramente un trauma che produrrà in loro paura, senso di solitudine e disperazione ma non gli si può impedire di viverlo. E’ più giusto invece aiutarli ad elaborarlo, a comprenderlo, a dargli un senso, a curare il suo dolore, a trovare le parole per esprimerlo. Il senso di vuoto per la malattia della mamma e quindi per il rischio di perderla può essere mitigato dalla presenza dell’altro genitore, a suffragare la sua esistenza come ulteriore figura significativa cui appoggiarsi, a dimostrazione che comunque non rimarranno soli. Il padre, e la famiglia allargata in generale, possono quindi aiutarli ad esprimere ed elaborare la rabbia inevitabile associata alla sensazione di poter essere abbandonati dalla mamma.

 

Dott.ssa Cristina Colantuono
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