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“Roma 1960. Le Olimpiadi che cambiarono il mondo” di David Marraniss

04-09-2011

“Roma 1960. Le Olimpiadi che cambiarono il mondo” di David Marraniss

Roma 1960. Le Olimpiadi che cambiarono il mondo” di David Marraniss. Recensione di Federico Smidile.

 

OLIMPIADI “UMANE“. Lo scorso anno si sono celebrati i 50 anni dalle ultime grandi Olimpiadi “umane”, quelle che si tennero a Roma tra la fine di agosto ed i primi di settembre del 1960. Tra i vari libri pubblicati spicca la ricostruzione romanzata ma attendibile del giornalista americano David Marraniss, “Roma 1960. Le Olimpiadi che cambiarono il mondo”, pubblicato in Italia da Rizzoli nell’estate 2010. Si tratta di un bel libro, scritto con taglio giornalistico, ma molto attento agli aspetti politici, sociali, ed umani che le Olimpiadi romane videro in quei caldissimi, ed ormai tanto lontani – non solo cronologicamente – giorni. L’ottica di Marraniss è soprattutto quella Nord americana, anche perché proprio dal 1960 la grande egemonia statunitense nella specialità definita “regina dei Giochi”, l’atletica leggera, venne scalfita dai sovietici, ed in generale da un mondo che cambiava, che cominciava davvero a diventare globale. In quelle Olimpiadi si ebbero le prime avvisaglie che nuovi mondi stavano arrivando: indiani, pakistani, africani cominciarono a dismettere i panni di comparse per divenire protagonisti. L’immagine finale dell’etiope Abebe Bikila che trionfa nella maratona, a piedi scalzi, sotto l’arco di Costantino, in quella Roma che pochi anni prima era Capitale dello stato fascista che aveva invaso l’Etiopia, oltre che di struggente bellezza, resta la testimonianza della prima vittoria dell’Africa nella corsa. Da allora il dominio prima Etiope e poi Keniano sarà sempre più forte (e solo l’Italia sarà spesso in grado di contrastarlo!) nelle corse lunghe. In quelle Olimpiadi, inoltre, si rivelarono campioni straordinari quali Cassius Clay, Livio Berruti e tanti altri; in quelle Olimpiadi si vide come la politica ed il denaro, che pure si fingeva di tenere fuori dalla porta, entrassero dalla finestra con tutta la loro forza, nel male e nel bene, scardinando certezze ed ipocrisie. Furono Olimpiadi di cambiamento, e tra i tanti non poco importante fu quello che vide le donne ed i neri assurgere a vette prima loro precluse, e che con ostinazione si cercava ancora di precludere.

 

WILMA RUDOLPH. L’esempio vero di quanto si dice è la dolcissima, bellissima, straordinaria Wilma Rudolph, il vero personaggio principale di tutto il racconto di Maraniss. Wilma è una giovane ragazza di colore, nata nella profonda provincia americana. Una bambina tra tante, in una famiglia poverissima che lotta per sopravvivere in un mondo ostile, soprattutto ai poveri di colore. Wilma viene presto colpita da una malattia che era frequente tra i bambini, soprattutto tra i meno fortunati economicamente: la poliomelite. Per anni, con l’aiuto della madre, del padre e dei fratelli, la piccola Wilma lotta contro una malattia che potrebbe non farla camminare mai più, o lasciarla “storpia” (come si diceva allora) per sempre. Ma l’amore della famiglia e la sua volontà sono più forti; sembra la tipica favoletta americana, eppure è vera, e Marannis la racconta con grande partecipazione ma senza “americanate”. La piccola cresce, soffre, cammina con scarpe ortopediche e sostegni di ferro; prova cure nuove e dolorose, facendo in pratica da cavia umana. Ma alla fine la poliomelite scompare: Wilma comincia a camminare. E poi a correre! E corre, corre come se dovesse recuperare la vita persa; corre e cresce. Quelle gambe che l’avevano maledetta ora diventano una benedizione: lunghe ed agili le consentono di giocare a basket e di farsi notare da un allenatore federale che cerca atlete da portare alle Olimpiadi. L’atletica femminile negli Stati Uniti, e non solo, è derisa e sbeffeggiata. Ma a dispetto di tutti cresce bene. Come Wilma, che entra nella squadra e si rileva presto una stellina di prima grandezza. Nel 1956 partecipa alle Olimpiadi di Melbourne, dove arriva terza con la squadra americana di staffetta. Ma è nel 1960 che Wilma diventa la Gazzella nera, conquistando Roma, i cuori degli uomini e l’affetto delle donne. In poco tempo la Rudolph si rivela non una stellina ma una stella di prima grandezza. Eppure non cambia di una virgola il suo carattere mite e sorridente. A Roma vince, con uno stile che è un inno alla bellezza pura, la medaglia d’oro nei 100 e nei 200 metri e porta la sua squadra di staffetta alla vittoria nella 4×100. La carriera di Wilma di fatto finisce qui. Si ritira nel 1962 per dedicarsi ad una vita tranquilla, come allenatrice, insegnante e mamma, non rinunciando mai ad affermare con forza la pari dignità delle donne non solo nello sport. La sua sarà una vita breve. Nel 1994, a 54 anni un tumore al cervello se la porterà via; poco prima di andarsene aveva incontrato il suo allenatore di quella lontana Olimpiade e come scrive Marannis “avevano parlato della famiglia di lei e di cosa rende piena la vita, dei suoi figli e dei sette nipoti; e di tutte le generazioni di ragazze e donne avevano tratto incoraggiamento dalla sua storia – e di come quella volta si era storta la caviglia in una buca su un campo d’allenamento coperto d’erba fitta, ma poi si era ripresa in tempo, per quei pochi giorni magici e ricchi di storia ai Giochi Olimpici di Roma” (p. 430). Il libro di Marannis è da leggere al tramonto dell’estate, quando tutto finisce e tutto ricomincia. Come fu allora, per quei grandi, ultimi Giochi Olimpici umani che la storia ricordi.

Federico Smidile

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